1.

 

NELLE MANI DEL VENTO

 

Julián

 

Sapevo cosa stava pensando mia figlia mentre mi guardava preparare la valigia con i suoi occhi scuri penetranti e un po’ impauriti. Erano come quelli di sua madre, mentre le labbra sottili le aveva prese da me, anche se con il passare degli anni, facendosi più rotonda, aveva finito per somigliare sempre di più a lei. Se la paragonavo alle foto di Raquel a cinquant’anni erano proprio due gocce d’acqua. Mia figlia pensava che fossi un vecchio pazzo e senza speranza, ossessionato da un passato che ormai non importava più a nessuno ma del quale non riuscivo a dimenticare neppure un giorno, un dettaglio, una faccia o un nome, anche se si trattava di un nome tedesco lungo e difficile, mentre spesso dovevo sforzarmi per ricordare il titolo di un film visto da poco.

E per quanto tentassi di sorridere non potevo evitare che stesse in pena, visto che oltre a essere vecchio e matto avevo anche un’arteria ostruita. Nonostante il cardiologo per non spaventarmi mi avesse detto che il sangue avrebbe cercato un percorso alternativo per evitare quell’arteria ormai inutile, non mi illudevo di poter ritornare. Così diedi a mia figlia quello che per me era l’ultimo bacio, cercando però di fare in modo che lei non se ne rendesse conto. Prima o poi mi avrebbe comunque visto per l’ultima volta, e preferivo che fosse da vivo, mentre preparavo la valigia.

A dire il vero, nelle mie condizioni non mi sarebbe mai saltata in mente una simile follia se non mi fosse arrivata dalla Spagna una lettera del mio amico Salvador Castro, detto Salva, che non avevo più visto da quando eravamo stati congedati dal Centro, messo in piedi per dare la caccia agli ufficiali nazisti sparsi per il mondo. Il Centro stesso era ormai sul punto di congedare sé stesso, a mano a mano che le sue prede arrivavano al limite della vecchiaia e lasciavano questo mondo, facendo sì che quei mostri moribondi si liberassero ancora una volta di noi. Nella maggior parte dei casi era stata la paura a tenerli sul chi vive e a farli scappare. E se avevano paura di noi era perché li odiavamo. Avevano dovuto solo imparare a riconoscere l’odore del nostro odio per darsela a gambe.

Quando presi in mano la busta nella mia casa di Buenos Aires e lessi il nome del mittente, per poco non ci rimasi secco. Poi la sorpresa lasciò spazio a un’emozione immensa. Salvador era uno dei miei, l’unica persona rimasta al mondo a sapere chi fossi veramente, da dove venissi e di cosa fossi capace per non morire... e per vivere. Ci eravamo conosciuti da giovanissimi in quel corridoio stretto fra la vita e la morte che i credenti chiamano inferno e i non credenti come me anche. Aveva un nome, si chiamava Mauthausen, e non riuscivo a immaginare che l’inferno potesse essere diverso o peggio di così. E mentre la mia testa lottava ancora una volta per uscire dall’inferno, attraversavamo il cielo fra le nubi bianche, le hostess mi passavano accanto lasciando una scia di profumo e io me ne stavo comodamente seduto al mio posto, a più di ventimila piedi d’altezza, nelle mani del vento.

Nella lettera Salva mi diceva che da qualche anno si era trasferito in una residenza per anziani ad Alicante. Un bel posto, soleggiato, pervaso dal profumo degli alberi di limone e di arancio che proveniva dai giardini a pochi chilometri dal mare. Nei primi tempi entrava e usciva quando voleva: era come un albergo, con una camera con bagno tutta per lui e il menu alla carta. Poi aveva avuto dei problemi di salute (non spiegava quali), e così adesso dipendeva dagli altri per andare e venire dal paese. Nonostante gli acciacchi, però, non aveva smesso di lavorare, a modo suo e senza l’aiuto di nessuno. «Certe cose non si possono lasciare così di punto in bianco, vero Julianín? È l’unica cosa che posso fare per non pensare a ciò che mi aspetta. Ricordi? Quando entrai là dentro ero un ragazzino come tanti.»

Lo capivo quasi incondizionatamente e non volevo perderlo, come non si vuole perdere un braccio o una gamba. Sapevamo bene cosa significava «là dentro»: era il campo di sterminio, dove eravamo finiti a lavorare nella cava. Salva sapeva cosa avevo visto e sopportato, e io sapevo cosa aveva visto lui. Ci sentivamo maledetti. A sei mesi dalla liberazione, con un aspetto pietoso che cercavamo di nascondere dietro un vestito e un cappello, Salva aveva già scoperto che esistevano varie organizzazioni il cui obiettivo era localizzare i nazisti e dar loro la caccia. E noi ci saremmo dedicati a quello. Quando ci liberarono, ci arruolammo nel Centro Memoria e Azione. Io e Salva eravamo due delle migliaia di repubblicani spagnoli internati nei campi, e non volevamo che ci compatissero. Non ci sentivamo eroi, ma piuttosto degli appestati. Eravamo vittime, e le vittime e i perdenti non piacciono a nessuno. Molti non ebbero altra scelta che tacere e sopportare la paura, la vergogna e il senso di colpa dei sopravvissuti, ma noi diventammo cacciatori. Lui più di me. Io in fondo mi lasciai trascinare dalla sua furia e dalla sua voglia di vendetta.

L’idea fu sua. Quando uscimmo da là dentro, io volevo solo essere normale, confondermi tra le persone comuni. Lui però mi disse che era impossibile, che eravamo condannati a sopravvivere. E aveva ragione: non sono mai più riuscito a farmi la doccia con la porta chiusa o a tollerare l’odore di urina, neppure della mia. Quando eravamo al campo Salva aveva ventitré anni e io diciotto, fisicamente ero più forte di lui. Quando ci liberarono pesava trentotto chili. Era smilzo, pallido, malinconico e molto intelligente. A volte dovevo dargli un boccone di quello che là dentro chiamavano cibo, bucce di patate bollite o un tozzo di pane ammuffito; non per compassione, ma perché avevo bisogno di lui per andare avanti. Ricordo che un giorno gli dissi che non capivo perché lottassimo per vivere, sapendo già che saremmo morti comunque. Lui mi rispose che saremmo morti tutti prima o poi, anche quelli che se ne stavano nelle loro case, seduti in poltrona con un bicchiere di vino e un sigaro in mano. Per Salva il bicchiere di vino e il sigaro rappresentavano la bella vita a cui ogni essere umano dovrebbe aspirare. E la felicità era trovare una ragazza che lo facesse volare. Credeva anche che ogni essere umano avesse il diritto di volare una volta nella vita.

Per vincere il terrore, anziché chiudere gli occhi e non voler vedere né sapere, Salva era dell’idea che bisognasse tenerli ben aperti e raccogliere tutte le informazioni possibili: nomi, facce dei carcerieri, gradi militari, visite di altri ufficiali al campo, organizzazione gerarchica. Mi raccomandava di ricordare tutto ciò che potevo perché più avanti ci sarebbe servito. E la verità è che cercando di memorizzare tutto dimenticavamo un po’ la paura. Capii subito che Salvador era convinto che la sua vita non sarebbe finita in quella cava, e neppure la mia, se fossi rimasto con lui.

Quando i cancelli si aprirono, io corsi fuori stordito e in lacrime. Salva uscì con una missione. Non si reggeva in piedi, ma aveva una missione. Riuscì a localizzare e a trascinare davanti ai giudici novantadue alti ufficiali nazisti; alcuni non potemmo far altro che sequestrarli, sottoporli a processo sommario e giustiziarli. Io non fui abile come Salva, mi capitò tutto il contrario. Non portai mai a termine una missione: alla fine li catturava sempre qualcun altro o riuscivano a scappare. Sembrava che il destino si prendesse gioco di me. Li individuavo, li inseguivo, li accerchiavo e, quando ero vicino, mi sfuggivano, si dileguavano. Avevano un sesto senso per mettersi in salvo.

Insieme alla lettera Salva mi mandava il ritaglio di un giornale pubblicato dalla comunità norvegese della Costa Blanca, che riportava in prima pagina la foto dei coniugi Christensen. Fredrik doveva avere ottantacinque anni e Karin qualcuno di meno. Era facile riconoscerli, perché non avevano ritenuto necessario cambiare nome. A detta di Salva l’articolo non rivelava niente di loro, parlava semplicemente del compleanno che quell’anziano dall’aria rispettabile aveva festeggiato a casa sua insieme a vari connazionali. Riconobbi quegli occhi da aquila in procinto di puntare la preda. Era il genere di sguardo che ti resta impresso per tutta la vita. La fotografia non era molto nitida. Dovevano avergliela scattata insieme alla moglie durante la festa e averla poi pubblicata per fargli una sorpresa. E guarda caso Salva era lì e l’aveva vista. Fredrik non aveva avuto pietà: aveva le mani lorde di sangue, forse perché non essendo tedesco, per quanto molto ariano, aveva dovuto dimostrare di essere affidabile e guadagnarsi il rispetto dei suoi superiori. Aveva militato in vari reggimenti delle Waffen-ss ed era responsabile dello sterminio di centinaia di ebrei norvegesi. Il fatto che fosse stato l’unico straniero a meritarsi la croce d’oro dava un’idea di quanto fosse stato crudele.

Nella foto era seduto accanto alla moglie su un divano, le grandi mani ossute appoggiate sulle ginocchia. Anche da seduto aveva l’aria di essere enorme. Era molto difficile che passasse inosservato. Lei invece era meno riconoscibile. La vecchiaia l’aveva deformata di più. Non dovetti frugare troppo nella memoria: era una delle tante ragazze bionde con la faccia rotonda e ingenua e il braccio alzato che popolavano i miei archivi.

«Non vedo bene, mi tremano le mani, mi saresti di grande aiuto. Perciò, se non hai niente di meglio da fare, ti aspetto. Chissà, forse potresti trovarla tu, l’eterna giovinezza», mi scriveva Salva. Sicuramente si riferiva al sole, al bicchiere di vino e al sigaro. E io non avevo intenzione di deluderlo. In fin dei conti avevo avuto la fortuna di sposarmi con Raquel e di farmi una famiglia, mentre lui si era dato alla causa anima e corpo. Raquel aveva il dono di trasformare il male in bene, e avevo preso come un’altra punizione il fatto che fosse morta prima di me e che i suoi pensieri buoni fossero spariti dal mondo lasciando spazio solo ai miei. Con il passare del tempo però mi ero reso conto che Raquel non mi aveva abbandonato del tutto e che pensare a lei mi dava pace e mi riempiva la mente di piccoli raggi di sole.

Mia figlia voleva accompagnarmi, aveva paura che il mio cuore non reggesse. La poverina pensava che alla mia età fosse tutto più difficile, ed era vero. Ma era vero anche che preferivo morire facendo questo piuttosto che tormentandomi per l’eccesso di zuccheri nel sangue. E poi, poteva anche darsi che per una volta le cose andassero diversamente e che il cuore di Fredrik Christensen smettesse di battere prima del mio. Per vecchio che fosse, avrebbe sempre pensato di poter vivere un po’ di più, e il fatto che ricomparissimo nella sua vita e che alla fine, dopo essere riuscito a scappare per tanti anni, tornassimo noi a mettergli la paura in corpo l’avrebbe fatto semplicemente dannare.

Mi emozionava pensare che io e Salva saremmo arrivati davanti al divano della foto e che a Fredrik sarebbe bastato vederci per farsela sotto.

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